giovedì 3 luglio 2014

American Horror Story: Coven



   Inizio una carrellata sulle serie tv terminate di recente con la terza stagione di American Horror Story, intitolata per l'occasione Coven (sì ok, non è finita proprio di recente, ma facciamo finta di sì).
   La tematica stregonesca, un cast femminile che dire mostruoso è poco (alla Lange, a Frances Conroy e alle adorabili Sarah Paulson e Lily Rabe si sono unite Kathy Bates, Angela Basset, Patty LuPone e Gabourey Sidibe, con un paio di apparizioni speciali della favolosa Stevie Nicks), l'ambientazione a New Orleans, l'intreccio con personaggi ed eventi storici... Tutto faceva presagire una stagione bomba, eppure Murphy e Falchuk sono riusciti a partorire la stagione delle delusioni. Tutto, in Coven, è un'occasione sprecata: dai personaggi, al setting, alle storyline.
   Personalità sulla carta interessanti come i personaggi di Lily Rabe (a cui viene riservata una fine ingloriosa) o di Jamie Brewer (che ritorna dalla prima stagione, in cui interpretava Addy) vengono sprecati senza se e senza ma; la storyline di Taissa Farmiga ed Evan Peters, novelli Giulietta e Romeo, dopo un'inizio intrigante viene svuotata di ogni contenuto, così come il potere "eccentrico" (leggasi 'vagina killer') della Farmiga, che dopo un paio di puntate non viene più nominato. La città di New Orleans, con il suo folklore unico, e le calde paludi della Louisiana, perfetto teatro di sabba e rituali stregoneschi, vengono relegate sullo sfondo. In effetti, ciò che manca a questa stagione sulle streghe è proprio la stregoneria: i poteri delle protagoniste sono innati e personalizzati, quasi si trattasse di personaggi usciti da X-men. C'è poca atmosfera, poca magia, poco orrore.
    A livello di trama, la confusione regna sovrana. Troppa gente che muore e resuscita, troppi cambiamenti di personalità nel giro di una sola puntata, troppo sentore che manchi una pianificazione studiata della stagione. Il finale offre una risoluzione tutto sommato soddisfacente, seppur priva di scossoni, con il personaggio più bistrattato che monta alla ribalta. Quello che mi ha disturbato del finale, tuttavia, è stata poi l'ambiguità morale sui personaggi di Zoe (Farmiga) e Queenie (Sidibe). Come tutte le altre ragazze, sono state ritratte in modo piuttosto oscuro verso la fine della stagione; eppure, il finale le vede dipinte come eroine, senza un percorso logico che le 'redima' caratterialmente. Avrei preferito che la visione di Cordelia (Paulson) della congrega sterminata si rivelasse veritiera: sarebbe stata molto più coerente con i comportamenti delle protagoniste, e non avrebbe lasciato la sensazione di un finale felice a tutti i costi.
   Tutto questo significa che la stagione è da buttare? No, significa che è una grossissima occasione persa. Eppure, i momenti che mi fanno amare la serie ci sono stati, e sono stati numerosi: per prima cosa le invenzioni visive a cui American Horror Story ci ha abituato, e qui parlo soprattutto del meraviglioso filmato stile film muto in cui vengono mostrate le seven wonders che una strega deve compiere per rivelarsi la Suprema, o i momenti musicali con Stevie Nicks che riprendono in chiave più leggera quello della Lange nella scorsa stagione; c'è stata una dose d'ironia molto maggiore, che molti non hanno apprezzato ma che io ho trovato coerente con la stagione; c'è stata una Angela Basset nei panni della più meravigliosa nera incazzata vista in tv negli ultimi tempi; ci sono state delle scene di violenza e di gore che mi hanno fatto letteralmente saltare sulla sedia (il massacro al salone di Marie Laveau e il massacro dei cacciatori di streghe), e che avrei voluto fossero molto più abbondanti. Molto bello e soddisfacente il confronto finale tra il personaggio della Lange e quello della Paulson, perfetta conclusione per il rapporto malato che correva tra le due e che poteva concludersi solo con la dipartita dell'una o dell'altra.
   La stagione è nel complesso una sufficienza tirata. Il classico ha le potenzialità ma non si impegna. Resta solo da vedere se la serie andrà completamente in vacca, com'è tradizione per gli show firmati Ryan Murphy, o se riuscirà a rimettersi in carreggiata visto la mole di materiale orrorifico praticamente infinita da cui si può attingere.

martedì 17 giugno 2014

'Salem's Lot (Stephen King)

   Il secondo romanzo di Stephen King è un racconto di vampiri dichiaratamente ispirato al Dracula di Stoker: cosa accadrebbe se Dracula sbarcasse nell'America degli anni '70? E' questa la premessa da cui King partì. Novello Dracula, il Barlow di 'Salem's Lot è un gentleman affascinante che giunge nella sonnolenta cittadina di provincia per farne la sua tana.
   Detto questo, il romanzo offre molto di più che un semplice omaggio al progenitore di tutte le storie vampiriche. Innanzitutto c'è un originale commistione di generi, in cui King butta dentro il classico tema della casa stregata - vedasi The Haunting of Hill House di Shirley Jackson - che permette riflessioni non banali sulla natura del male e sulle sue conseguenze sulla realtà. L'infezione vampirica che contagia la città, poi, è in effetti fuori dagli standard della letteratura di genere: di fatto, nessuno si rende conto a 'Salem's Lot di quello che sta succedendo, salvo lo sparuto manipolo di cacciatori di vampiri improvvisati costituito dai protagonisti. La città continua la sua vita pigra, per inerzia, senza notare la lenta morte a cui va incontro: sotto quest'aspetto il libro ha molto più a che vedere con Invasion of the Body Snatchers che con i classici topoi vampirici, con il disgregamento della società dall'interno, l'azzeramento della personalità e la sua sostituzione nello stesso involucro corporeo, che però contiene una creatura aliena. Quello con il classico film di fantascienza è un parallelo proposto da King stesso, che al periodo in cui scrisse il romanzo (1973-74) era profondamente deluso dalla scena politica americana e la corruzione dilagante.
   Troviamo per la prima volta diversi dei luoghi comuni della letteratura kinghiana: un protagonista scrittore che deve venire a patti con un trauma personale (e ci sono già i barlumi di indagine psicologica che prenderà piede del tutto nel successivo The Shining), il ruolo dei bambini come detentori del potere della fantasia e dell'immaginazione, nonché del potere che deriva dal credere nell'immaginazione (ruolo qui incarnato da Mark Petrie), e non meno importante l'ossessione per le piccole cittadine e per il male che vi cova segretamente all'interno. Riguardo a quest'ultimo punto, la città di 'Salem's Lot non è che un prototipo dei successivi teatri delle classiche vicende Kinghiane come Derry e Castle Rock.
  Il romanzo presenta ancora qualche punta acerba e qualche ingenuità da primo pelo, ma è un'ottima seconda prova che porterà alla definitiva consacrazione di Stephen King nel suo romanzo successivo. 'Salem's Lot è un piccolo classico, e King stesso l'ha definito il suo preferito tra i suoi lavori.
   Note in calce: il personaggio di padre Callahan ritornerà molti anni dopo nella serie The Dark Tower, in cui il romanzo stesso gioca una piccola parte. 'Salem's Lot, inoltre, compare in due racconti brevi raccolti nell'antologia Night Shift: One for the Road e Jerusalem's Lot.

lunedì 9 giugno 2014

A Memory of Light (Robert Jordan & Brandon Sanderson) + The Wheel of Time

   Estenuante.
  Non riuscirei a trovar parola migliore per descrivere l'intera serie, così come l'ultimo volume. Quattordici mallopponi della mole di 800 pagine l'uno (se ci va bene), in cui regnano pagine e pagine di nulla assoluto. Se i primi quattro o cinque volumi erano libri con una trama relativamente autoconclusiva, dal sesto in poi Jordan ci ha sommerso di personaggi, sottotrame, situazioni portate avanti al limite del sostenibile che si trascinavano avanti con la lentezza di una mandria di tartarughe.
   Ora, io non sono uno di quei lettori che brama che succedano cose. Uno dei miei libri preferiti in assoluto è The Mists of Avalon, in cui il massimo dell'azione sono le conversazioni tra le donne della corte di re Artù. La differenza è che Mists ha dei personaggi dannatamente interessanti, affonda le sue radici in una tradizione letteraria ben definita, ha delle tematiche precise e per niente banali.
   The Wheel of Time non ha nulla di tutto ciò. E' puro divertimento per nerd appassionati di fantasy, e come tale tutto ciò che richiedo è di essere intrattenuto. Se questo intrattenimento viene a mancare... beh, iniziano i problemi. Intendiamoci, non odio The Wheel of Time, anzi. Per certi versi è una saga che amo. Amo l'isteria compulsiva di ogni personaggio femminile, amo la stupidità di fondo delle Aes Sedai, amo il modo idiota con cui vengono presentate le relazioni tra i due sessi: è tutto così assurdo da risultare esilarante. Gli spunti seri, poi, non è che manchino: la natura e la ciclicità del tempo, l'equilibrio tra principio maschile e femminile, la natura del male e del libero arbitrio. Peccato che Jordan non abbia mai avuto le capacità letterarie di sviluppare tali temi in maniera decente, e li abbia fatti affondare - lo ripeto - in migliaia di pagine in cui a dominare è il brodo allungato.
   Per quanto mi riguarda, la serie si mantiene su una sufficienza strappata, che può alzarsi o abbassarsi drasticamente a seconda che siate patiti di fantasy o meno.
    Venendo a questo A Memory of Light, vero e proprio tour de force che ha finalmente portato la saga alla sua conclusione, mi sento abbastanza certo sul dire che si sia rivelato una delusione: se i precedenti due volumi di Sanderson sembravano aver riportato la saga nel pieno dell'azione, quest'ultimo volume abbassa il tiro. L'azione c'è, ma sembra essere fine a se stessa. L'intero libro non è che una sequela estenuante di battaglie, di cui vengono spiegati con ogni minuzia dettagli tecnici di cui sinceramente poco mi interessa. L'epicità della tanto agognata Tarmon Gaidon non è presente sulla pagina: sembra quasi che a combattere sia uno sparuto numero di incanalatori, quando a mobilitarsi sono forze di decine di migliaia di individui. Anche il One Power stesso viene usato in maniera molto meno spettacolare di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Avrei desiderato circoli di Aes Sedai e Asha'man che creassero autentiche meraviglie, volevo vedere le esplosioni, il sangue, la disperazione, e invece sono rimasto a bocca asciutta.
   Di fronte a tutto ciò, la maggior parte dei personaggi si riduce alla stregua di una schiera di pedine da spostare e sacrificare in nome della trama. Personaggi che un tempo erano al centro delle vicende, come Nynaeve e Moiraine, risultano del tutto sacrificati. Rand stesso non fa che passare la maggior parte del tempo ingaggiato in una lotta "psicologica" con il Dark One che tutto sommato non è né così interessante come vuole essere, né così spettacolare. Per non parlare di personaggi su cui in passato si era investito enormemente (Morgase, Padan Fain, Slayer), che qui vengono mostrati quasi come in cameo estesi, al punto da chiedersi perché non averli lasciati sullo sfondo da subito.
   Il libro ha poi dei palesi esempi di una caratteristica di Jordan che mi ha sempre fatto bellamente incazzare: il perdere tempo con dettagli insignificanti e liquidare gli eventi potenzialmente più interessanti in due righe, o raccontandoli in modo che sia il lettore a dover trarre le sue conclusioni. Qui ne sono un chiaro esempio lo scambio di corpi finale tra Rand e Moridin, che (a quanto ho capito) sfrutta quella connessione tra i due dovuto allo scontro tra balefire avvenuto diversi libri prima. Il modo in cui ciò avviene è un mistero assoluto, come lo è il motivo per cui Rand, alla fine, riesca ad accendere la pipa senza usare il One Power.
   Totalmente insoddisfacente, come già detto, lo scontro tra Rand e il Dark One, che si protrae senza scossoni, senza un colpo di scena, tutto liscio e prevedibile: dopo quattordici libri e più di vent'anni di vita della saga, era lecito aspettarsi qualcosa di più. La stessa cosa vale per l'epilogo: sbrigativo, scarno, liquida con poche parole personaggi a cui ci siamo affezionati, nel bene o nel male, senza darci un minimo di spiraglio su come sarà il loro futuro, o il futuro del mondo in cui vivono. La colpa, qui, è tutta di Jordan, perché Sanderson si è limitato ad usare l'epilogo che Jordan aveva scritto anni prima.
   Insomma, un fallimento abbastanza grosso, per quanto riguarda il finale.
   La serie, o la si odia o la si ama. O tutti e due. Per quanto mi riguarda, non sono più un ragazzino appassionato di D&D, quindi quello che ha da offrire The Wheel of Time non mi basta.

martedì 29 aprile 2014

The Book of Lost Tales (J. R. R. Tolkien)

   I due volumi del Book of Lost Tales sono i primi nella serie The History of Middle-earth, una collana di ben dodici volumi in cui Christopher Tolkien raccoglie e analizza materiale non pubblicato, appunti e storie lasciate incompiute da parte di suo padre.
   The Book of Lost Tales non è che una sorta di proto-Silmarillion, la primissima versione di quella cosmogonia che Tolkien avrebbe continuato a limare e rimaneggiare fino alla sua morte. Il primo volume documenta (in modo molto più dettagliato rispetto alla versione "finale" del Silmarillion) la creazione di Arda, dalla musica degli Ainur fino alla creazione di Kôr (versione primitiva di Tirion), e prosegue con la distruzione degli alberi da parte di Melko(r), la fuga dei Noldoli (Noldor) e l'occultamento di Valinor.
   Il tutto è presentato sotto forma di storia raccontata all'interno di un racconto cornice: il protagonista è Eriol/Ælfwine, un marinaio inglese che giunge a Tol Eressëa al "Cottage of Lost Play" ("la casetta del gioco perduto", uno dei nomi più poetici ed evocativi che mi sia mai capitato di sentire), nel quale gli elfi gli raccontano di Eru e della creazione del mondo.
 Ciò che colpisce di più in questi racconti è il livello di dettaglio e immaginazione che Tolkien immette nella pagina, sintomo di una fantasia sfrenata e di una passione totale per il mondo da lui creato. Ci sono dettagli fantastici che scompariranno del tutto negli scritti successivi, come diversi Valar aggiuntivi (Makar, Measse, Omar), la descrizione minuziosa delle aule dei Valar della morte, il lunghissimo racconto della creazione del Sole e della Luna (il cosiddetto Narsilion).
   Se le minuzie riguardanti la creazione di Arda abbondano, risultano invece ancora abbozzate le storie dei Noldor e i loro protagonisti. La complessa genealogia che Tolkien svilupperà è qui assente, e sono ancora confuse le relazioni esatte tra i protagonisti. Gli stessi Silmarilli, che nel Silmarillion saranno il motore catalizzante dell'intera vicenda, e perno del destino di Arda, hanno qui una funzione marginale, e non rappresentano ancora la materializzazione della santità di Valinor che avranno in seguito (esemplare, a tal proposito, il riferimento al fatto che il Silmaril finito nelle mani di Melko sia stato irrimediabilmente corrotto dal suo tocco, mentre nel Silmarillion lui non può nemmeno toccare il sacro gioiello).
  Nel secondo volume sono presenti le grandi storie epiche che avrebbero benissimo potuto meritare dei romanzi a sé stanti: il racconto di Tinúviel (Beren e Lúthien), la storia di Turambar, la caduta di Gondolin, la storia della Nauglafring (la collana dei nani) e il racconto di Eärendel. Rispetto al primo volume, qui cede il forte aspetto di potenza visiva che caratterizzava il primo. Pur se il dettaglio è sempre maggior che nella versione pubblicata nel Silmarillion, manca quel senso di coesione che collega le storie l'una all'altra e che andrà a formare un solo, potente fiume di epicità.
   L'intero Book of Lost Tales è scritto in un inglese arcaico, tanto affascinante quanto ostico e prosaico. Tutto, a partire dai dettagli e dal linguaggio, verrà snellito nelle versioni successive, mentre si andrà ad aggiungere quella fitta rete di connessioni e di personaggi che unisce una storia all'altra. Ad ogni racconto segue un corposo commento di Christopher Tolkien che illustra come si sarebbe evoluto il racconto in questione nel corso del tempo, completo di dettagli sulla nomenclatura, sulla collocazione temporale del testo e sulla natura stessa dei manoscritti originali.
   Come dare un voto complessivo alla raccolta? E' difficile. Senza dubbio le storie sono una testimonianza fondamentale del genio del loro creatore, nonché un certosino lavoro di ricostruzione filologica, ma viene da chiedersi se tutto il materiale pubblicato meritasse effettivamente di vedere la luce. Se da una parte alcuni dei racconti fanno rimpiangere che Tolkien li abbia abbandonati o pesantemente rimaneggiati (l'intera cornice al Cottage of Lost Play, i minuziosi dettagli su Valinor e sui Valar), altri non sono altro che miseri stralci di idee appena buttate su carta (la storia di Gilfanon, quella di Eärendel e il racconto finale che avrebbe dovuto collegare la storia di Valinor con il nostro mondo, spiegando così l'origine delle fate). Christopher Tolkien nutre senza dubbio un amore folle per l'eredità lasciata dal padre, ma tende a farsi prendere troppo la mano.
   Si tratta in definitiva di un lavoro senza dubbio affascinante, una manna dal cielo per i fan di  Tolkien, ma che avrebbe forse richiesto un maggior lavoro di compressione e scrematura nelle parti meno "compiute".

giovedì 24 aprile 2014

Carrie (Stephen King)

   Carrie è il primo romanzo di Stephen King. Il libro che ha iniziato tutto. Il libro che ha dato i natali letterari all'uomo che ha segnato la mia vita.
   Sì, perché io Stephen King ce l'ho nel sangue, nelle ossa, nella testa. Anche se negli ultimi anni mi ci sono un po' allontanato, come un figlio che si allontana giustamente dai genitori quando diventa grande, alla fine il mio cuore è sempre con lui. Ancora ricordo quel giorno (prima media? Seconda?) in cui feci la sua conoscenza alla mostra del libro, in cui acquistai la mia copia ormai scomparsa di Incubi e deliri. La mia professoressa (Giuliana Garugli, se mi leggi, sappi che ti ricordo ancora oggi), accanita kinghiana, mi disse di attendere, perché non era una lettura adatta ad un undicenne. Aveva ragione da vendere. Eppure non l'ho ascoltata, e non me ne sono pentito per un secondo, nonostante la mia salute mentale abbia qualcosa da ridire a proposito.
   Ora, dopo questa appassionata dichiarazione d'amore che potrebbe fruttarmi un settimana in uno dei migliori sanatori del paese, torniamo a noi. Salvato dal cestino della carta straccia da quella santa donna di Tabitha King, Carrie è un libretto snello, veloce da leggere, tal taglio estremamente realistico. Per aumentare la sensazione di "vero", King ha inserito una quantità forse esagerata di fittizi ritagli di giornale, articoli, stralci di libro e finte testimonianze, tutti riguardanti il caso mediatico suscitato dalle azioni della protagonista telecinetica.
   Opera solida, deliziosamente acerba, Carrie è una testimonianza monumentale di quale inferno sia l'adolescenza. E King non ne ha per nessuno: i bulli sono dei personaggi totalmente privi di cuore e di scrupoli, degli sbandati totali privi del benché minimo briciolo di umanità; gli adulti sono assenti o, nel caso di miss Desjardin, alla fine falliscono nel tentativo di compiere il loro dovere. Carrie stessa è un personaggio per il quale è impossibile provare simpatia (King stesso ha ammesso di odiarla): è una ragazza passiva, debole; dovremmo parteggiare per lei, ma King la presenta in un modo oscuramente ambiguo, al punto da farci credere che noi stessi, avendo avuto a che fare con una Carrie nella nostra vita, non l'avremmo di certo trattata con rispetto. Il massacro finale, che in altre mani avrebbe dovuto risultare catartico, non viene presentato come tale: non è altro che il passo definitivo verso l'inevitabile autodistruzione della protagonista.
   Adattato nella celeberrima pellicola di Brian De Palma, Carrie ha lanciato Stephen King nell'olimpo dell'horror (e non solo). Considerato che contiene i germi di tutta la produzione successiva di King (comprese le sue ossessioni per la religione e il male che alberga nella provincia), direi che si è meritato tutto il suo successo.

The Silmarillion (J. R. R. Tolkien)

   The Silmarillion, pubblicato nel 1977, è la seconda (che io sappia) pubblicazione postuma delle opere di Tolkien. Curato dal figlio Christopher - che ultimamente sembra voler spremere fino al midollo persino le liste della spesa scritte dal padre, vista la quantità di materiale inedito che sta pubblicando di recente - il Silmarillion è sostanzialmente un'enorme, denso, epico volume che narra le vicende di Arda (il mondo creato da Tolkien) dalla sua creazione fino agli eventi narrati in Lord of the Rings.
   Il buon vecchio Tolkien, che aveva trascorso la sua intera vita a inventare, creare, rimaneggiare, limare, eliminare qualunque cosa riguardasse il suo universo fantastico, aveva lasciato un'enorme quantità di appunti al momento della sua morte. Le sue note erano in costante evoluzione, e non è praticamente mai giunto a produrre una versione definitiva della storia di Arda. Nella compilazione del Silmarillion, Christopher decise di usare le versioni più recenti degli scritti di suo padre, in modo da evitare il più possibile di incorrere in incongruenze con lo Hobbit e con Lord of the Rings, che rimangono gli unici due libri sul mondo di Arda pubblicati durante la vita di Tolkien. L'enorme mole di materiale originale risalente ai primi anni in cui Tolkien scriveva su Arda venne poi pubblicata, sempre da Christopher, nei primi tomi della History of Middle Earth, ossia i due volumi del Book of Lost Tales.
   Mi risulta difficile parlare con obiettività del Silmarillion: si tratta di un'opera complessa, di difficile definizione. Non è un romanzo, non è una raccolta. Per fare un paragone azzardato, si potrebbe trattare di una sorta di Bibbia di Arda, un'insieme di racconti mitopoietici legati da spazio, personaggi e tematiche. Pur essendo un libro dalle dimensioni relativamente contenute, il Silmarillion contiene un numero sterminato di nomi, personaggi, storie che si incrociano nello spazio e nel tempo. E' una vera e propria opera mitologica che, nelle intenzioni iniziali dell'autore, avrebbe dovuto fingere da narrazione fittizia per le origini della storia e della cultura inglesi. Lo stile è quello distaccato proprio delle narrazioni epiche del Beowulf e del Kalevala: narrazione che raramente si avvicina ai personaggi, psicologie pressoché inesistenti ma esplicitate dalle parole stesse dell'autore, discorsi diretti ridotti all'osso. Ciò che in un normale romanzo, quindi, risulterebbe essere un difetto mortale, qui assume i connotati dell'epicità senza tempo delle antiche saghe nordiche, dei cicli di Re Artù e del Mabinogion.
   Ciò che risulta sorprendente, a primo acchito, è la densità dei fatti narrati. Con estrema nonchalance, Tolkien dipana un fittissimo arazzo di eventi che coprono un arco temporale di più di 5000 anni. Ogni singolo capitolo del Silmarillion avrebbe meritato senza se e senza ma un romanzo a se stante della stessa lunghezza di Lord of the Rings. E' quindi un po' con l'amaro in bocca che, almeno per quanto mi riguarda, rimpiango che Tolkien non sia mai riuscito a mettere ordine tra il gargantuesco numero di idee che continuava a partorire. Tuttavia c'è da dire che Tolkien, a quanto pare, fosse diventato sempre meno interessato alle storie in sé, e che sul finire della sua vita avesse investito tutta la sua attenzione sull'aspetto filosofico della sua creatura: il concetto di "dono" di Eru (la morte degli uomini), il concetto di immortalità degli elfi e via dicendo.
   Ancor più di Lord of the Rings, il Silmarillion racchiude in sé la summa della visione del mondo dell'autore: nella storia del mondo il male è un concetto impossibile da estirpare completamente. Il creato, Arda, sono intrinsecamente "buoni", ma suscettibili alla corruzione. L'intera storia di Arda è una continua "caduta" da uno stato di bellezza e armonia iniziale, a uno in cui gran parte di questa bellezza viene perduta irrimediabilmente. Centrale anche in quest'opera è la presenza di un artefatto magico - in questo caso più artefatti: i meravigliosi Silmarilli, attorno ai quali ruota il destino delle vicende narrate, che mettono anche qui in primo piano il tema dell'avidità che era preponderante in Lord of the Rings. Se però, in quest'ultimo, l'unico anello era intrinsecamente malvagio, i Silmarilli sono quanto di più puro potesse esistere: il loro posto, infatti, alla fine non sarà nel mondo, ma verranno perduti. Non bisogna pensare, nonostante ciò, che la visione di Tolkien fosse pessimistica: la corruzione è sempre  combattuta attivamente da coloro che trovano che si sia sempre qualcosa di valido da salvare.
   Per quanto mi riguarda, si tratta di un capolavoro contenente una miriade di altri capolavori purtroppo non venuti in essere.

venerdì 27 dicembre 2013

The Mists of Avalon (Marion Zimmer Bradley)

   The Mists of Avalon (Le nebbie di Avalon), della compianta Marion Zimmer Bradley, è stato pubblicato nel 1983. Esattamente dieci anni dopo ha visto la luce un prequel, The Forest House, scritto in collaborazione con Diana L. Paxson perché la salute della Zimmer Bradley si andava ormai deteriorando. The Forest House segnò l'effettiva nascita del ciclo di Avalon, una serie formata esclusivamente da prequel del romanzo originale, e continuata, dopo la morte di Marion, dalle sole mani della Paxson.
   The Mists of Avalon è una rivisitazione del ciclo arturiano, operazione attuata già un'infinità di volte all'epoca della pubblicazione del romanzo (molto successo avevano avuto The Once and Future King di T. H. White - da cui venne tratto il famoso La spada nella roccia della Disney - e la serie iniziata da Mary Stuart con The Crystal Cave). La Zimmer Bradley stessa era al corrente del fatto che l'idea alla base del romanzo non fosse esattamente originale. L'elemento assolutamente rivoluzionario dell'opera fu la scelta di rinarrare gli eventi ben noti esclusivamente dal punto di vista dei personaggi femminili: sono quindi praticamente assenti le battaglie e le avventure dei cavalieri della Tavola Rotonda, come i grandi spazi aperti delle foreste e della campagna britannica in cui esse si consumano. Abbiamo invece gli ambienti chiusi dei castelli e delle stanze in cui le donne passano il tempo a filare, i focolari e le sale da banchetto.
   Sono diverse le donne a cui la Zimmer Bradley affida i vari punti di vista: Ginevra (Gwenhwyfar), Viviane, Igraine, Morgause, Elaine, Nimue, Niniane... e Morgaine. E' a quest'ultima - la Morgana nota come una temibile fattucchiera, per la quale l'autrice adotta uno spelling più arcaico - che è affidato il compito di narrare la parabola dell'ascesa e della caduta di Camelot. A questo punto, è doveroso aprire una parentesi: al tempo della scrittura del romanzo la Zimmer Bradley aveva abbracciato il neopaganesimo. Nel libro si trovano palesi riferimenti alla wicca gardneriana, ai lavori di Margaret Murray, a Il ramo d'oro di Frazer. Attorno a tutto ciò l'autrice costruisce una mitologia fittizia imperniata sulla Dea (e, in tono minore, sul Dio) di stampo del tutto wiccan. L'Avalon del romanzo è il principale centro di culto della Dea, la cui venerazione è messa in pericolo dall'avanzata inarrestabile del cristianesimo. La Morgaine protagonista del romanzo rende sua unica ragione di vita il preservare l'antico culto dal bigottismo irrazionale dei preti: sacerdotessa di Avalon, Morgaine diventerà la Dama del Lago dopo la morte della sua tutrice, Viviane (nel ciclo di Avalon quello di Dama del Lago è un titolo, come anche quello di Merlino, motivo per cui vengono designati più personaggi in tal modo).
   E' con Morgaine che la Zimmer Bradley espleta lo scopo ultimo del suo romanzo: dare voce all'oppressione femminile portata avanti dal cristianesimo, il tutto presentando in una luce completamente nuova una figura che, tradizionalmente, è sempre stata mostrata come un personaggio semplicemente malvagio, senza però una vera ragione di esserlo. Morgaine, nella sua disperata crociata per non far soccombere il paganesimo, si macchia effettivamente degli atti di cui la tradizione la accusa - complotta contro Arthur/Artù, si immischia negli affari personali di Gwenhwyfar e Lancelet pur sapendo di far soffrire delle persone, commette indirettamente omicidio - ma si tratta di azioni ampiamente motivate da una personalità forte e da un obiettivo ben saldo nella sua mente. Non abbiamo quindi la solita maliarda fatale e seduttrice, ma una donna a tutto tondo, esplorata con maestria in un ritratto psicologico invidiabile: Morgaine è passionale e appassionata, sofferente nel suo amore mai corrisposto verso Lancelet; ma è al contempo distante, forse anche fredda, misteriosa e manipolatrice... o perlomeno è così che la vedono i personaggi che non sanno vedere in lei i vari aspetti della Dea. L'autrice ci fa soffrire con lei, ci fa esultare per la sua causa, ci travolge nell'onda degli eventi di un'intera generazione osservati dagli occhi imperscrutabili di Morgaine.
   I ritratti psicologici delle donne protagoniste non si esauriscono certo con quello di Morgaine: personaggio polare a lei è quello di Gwenhwyfar, una Ginevra strappata tra l'amore per Lancelet e la devozione ad Arthur (anche per lei, come per diversi altri personaggi, l'autrice usa per il nome spelling meno noti). Gwenhwyfar è tutto ciò che Morgaine non è: debole, insicura, agorafobica, intimorita dalla sua stessa ombra. La sua personalità pavida la fa rifugiare sempre più tra le braccia consolatorie del cristianesimo, portandola molto vicina al fanatismo. E' soprattutto l'influenza di Gwenhwyfar su Arthur a mandare a monte il lavoro di Morgaine, motivo per cui il rapporto tra le due è costantemente in bilico tra l'odio e l'affetto. E' proprio la descrizione del loro rapporto uno degli aspetti che ho maggiormente apprezzato nel raccontare i personaggi: donne assolutamente antitetiche, Morgaine e Gwenhwyfar hanno ogni ragione di odiarsi; eppure, in quella solidarietà femminile che la Zimmer Bradley descrive molto bene, sanno essere vicine l'un l'altra, e anche quando vengono separate per sempre dall'inimicizia, l'affetto si affaccia sempre nei loro pensieri.
   Ci sarebbe molto da dire sulle donne del romanzo, ma basti sapere che ognuna di esse si ritaglia una parte memorabile: Igraine, protagonista in balia del destino di una buona prima parte del libro; Morgause, arrivista, calcolatrice, ma ugualmente raffigurata a tutto tondo come capace d'affetto sincero e spassionato; Viviane, una personalità di ferro che porta sulle sue spalle il peso del titolo di Dama del Lago; Nimue, al centro di un brevissimo ma struggente capitolo su un amore destinato alla tragedia...
   In tutto ciò gli uomini sembrano quasi relegati sullo sfondo, assieme alle vicende che li vedono protagonisti. Spiccano, attraverso gli occhi delle donne, solo due di essi: Arthur, ovviamente, un re buono e preoccupato della felicità di ogni suo suddito, e un tormentato Lancelet, descritto velatamente come bisessuale e diviso tra l'amore per Arthur e quello per Gwenhwyfar (il triangolo che si instaura tra i tre è un vero e proprio inferno amoroso che li tormenta per tutta la vita). Bellissimo e contrastato anche il rapporto tra Arthur e la sorella Morgaine: affrontano una parabola discendente che li vede cadere nell'odio reciproco, ma continuano ad essere avvinti da un legame indissolubile d'amore eterno; molti lo vedono come peccaminoso, ma si tratta invece, forse, del più puro in assoluto.
   Chi si avvicina alla lettura sperando di trovare azione ed epica si sbaglia: Mists è un romanzo lungo, che si snoda lentamente come un fiume; è tutto giocato sugli sguardi, le emozioni, le parole, i drammi personali. Ho sentito molti usare l'abusatissima parola noioso per descriverlo, ma credetemi, chi lo giudica tale semplicemente non ha la sensibilità adatta ad affrontare un romanzo del genere.

   Vorrei chiudere questa carrellata di pensieri parlando dell'elemento religioso del romanzo: da tempo ho sviluppato un'avversione viscerale per tutto ciò che si rifaccia alla wicca o al neopaganesimo, spacciando per verità storica certi deliri privi di fondamento. The Mists of Avalon ha invece il grandissimo pregio di essere stato scritto da una donna profondamente immersa nella propria spiritualità: la Zimmer Bradley, in una fase più tarda della sua vita, ritornò al cristianesimo, ma Mists è una testimonianza di quanto vividamente avesse vissuto quel periodo femminista-neopagano. Il libro è intessuto di archetipi pagani sinceri, e dà un ritratto fedele dell'oscuro e misterioso ciclo di vita-morte-rinascita che sta alla base dei culti di fertilità di cui ancora oggi rimane traccia nel folclore (e a cui rimando, appunto, alla lettura de Il ramo d'oro di James Frazer). Insomma, alla fine del romanzo non si può non rimanere con l'amaro in bocca - nonostante l'epilogo in qualche modo consolatorio - di fronte alla marea cristiana che finisce per invadere la Gran Bretagna occultando tutta l'antica sapienza. In ultimo, tutto ciò che rimane della vecchia religione pagana, come anche della corte di Camelot, sono solo delle memorie lontane nel tempo, vaghe come le ombre che traspaiono dalle nebbie che avvolgono Avalon...

   Piccola nota sulla traduzione italiana: è molto buona, ma la versione della Tea che io ho letto elimina inspiegabilmente alcune parti del romanzo. Andando a memoria non si tratta di molto materiale, ma di passaggi comunque succosi come parte del bellissimo prologo, la storia della Pentecoste, una canzone cantata da Lancelet e un dialogo di Taliesin sulla natura del Dio e della Dea.