lunedì 30 maggio 2011

"Gardens of the Moon" [recensione]

Gardens of the Moon (I giardini della Luna) è il primo libro della saga The Malazan Book of the Fallen di Steven Erikson, titolo tradotto assolutamente a caso nell'edizione italiana in La caduta di Malazan: evidentementemente a qualcuno è sfuggito il fatto che Malazan è un aggettivo, non un nome, e che almeno fin qui non c'è in vista nessuna caduta (o quasi).

Questo Gardens of the Moon mi ha lasciato stranito per circa duecento pagine abbondanti, pagine in cui veniamo letteralmente sommersi di nomi, di eventi, di informazioni solo accennate nei dialoghi dei personaggi senza che l'autore ci dia la minima informazione su cosa stia succedendo. Cosa accade quando un mago accede al suo Warren (canale in italiano, anche se sarebbe più corretto qualcosa come labirinto)? Chi è in realtà questa imperatrice Laseen sempre sulla bocca di tutti? Lo possiamo solo immaginare, e il quadro generale che ne esce è quello di un mondo in cui la magia è dietro l'angolo, un mondo che ha alle spalle una storia di guerre continue e che ora è pressato dall'avanzata di questo temibile Impero Malazan.

Venire catapultati nella storia in medias res senza uno straccio di introduzione è una mossa azzardata, che potrebbe far chiudere il libro a metà a più di un lettore. Tanto più che nemmeno la trama è chiara: solo alla fine del volume, quando le storie di tutti i personaggi convergono negli eventi ambientati nella città di Darujhistan, iniziamo a vedere un filo conduttore che accomuna i destini di un cast di presenze enorme. Il difetto principale di un'opera del genere è forse questo: essere troppo estremista nel rifiutarsi di concedere il minimo infodump, col rischio di alienare i lettori meno vogliosi.

Ma se da un lato è un limite, questa caratteristica rappresenta paradossalmente anche un lato affascinante di Gardens of the Moon: il ricevere informazioni col contagocce fa intuire che sotto alla superficie il mondo di Erikson è enorme, come è smisurata la storia che gli sta alle spalle. Abbiamo esseri vecchi di centinaia di migliaia di anni, città e rovine la memoria del cui passato si è persa negli eoni. Giova in questo il passato da geografo e archeologo dell'autore, perfettamente disinvolto nel darci l'idea dello scorrere di un tempo smisurato e nel delineare razze e popoli credibilissimi seppur inventati di sana pianta senza il minimo riferimento al nostro, di mondo.

Non aspettatevi troppe emozioni. I personaggi sono talmente tanti che ho trovato impossibile provare empatia per loro: si alternano sulle pagine a una velocità impressionante, quasi che Erikson non voglia intenzionalmente farci affezionare a loro. E non è nemmeno la loro caratterizzazione il punto forte del libro, bensì una necessità di raccontare ogni singolo evento come in un libro di storia, fornendoci così un arazzo impressionante che fa intuire l'enorme portata della trama che ci aspetta nei nove libri successivi.

Gardens of the Moon è fantasy puro. Ci sono maghi, alchimisti, razze fantastiche e magia "urlata". Sto provando un leggero fastidio ultimamente per fantasy di questo tipo, ma se ce ne fossero di più come questo, fatti con la stessa cura e la stessa passione, non mi sarebbe difficile cambiare idea.

Il sito di Stephen Erikson: www.stevenerikson.com

Piccola nota: il mondo di The Malazan Book of the Fallen è stato creato da Erikson assieme a Ian Cameron Esslemont (a cui Gardens of the Moon è dedicato), che sta scrivendo un'ulteriore saga ambientata nello stesso mondo sotto il nome di Novels of the Malazan Empire.

lunedì 16 maggio 2011

"Le apparizioni della monaca affranta" [racconto]

















Questo è uno dei primi racconti che ho scritto. Mi rendo conto rileggendolo che è un polpettone abbastanza pretenzioso, ma ci sono affezionato. L'ho inviato al concorso Nella Tela! 2010, con risultati sconosciuti. Forse è meglio per il mio orgoglio continuare a ignorare la posizione in classifica.

Probabilmente noterete certi nomi e riferimenti che vi faranno spuntare un punto di domanda nel cervello. Non voglio spiegare nulla, dirò solo che il racconto è ambientato in un mondo di mia creazione su cui rimugino ormai da anni.

Buona lettura!

DOWNLOAD PDF: Le apparizioni della monaca affranta

sabato 7 maggio 2011

"White as snow"


White as Snow, inedito in Italia, è un romanzo di Tanith Lee, autrice britannica estremamente prolifica che purtroppo sembra passare inosservata. E' una delle sole sue due opere che abbia letto, ma è bastata a farmi mettere in programma di lettura praticamente tutta la sua bibliografia reperibile, che spazia da libri per bambini al fantasy, dall'horror alla fantascienza.
Il romanzo è parte della Fairytale Series, una collana edita da Terri Windling che raccoglie opere basate sulle fiabe più svariate. Tanith Lee non è nuova al genere fiabesco: nei primi anni '80 ha pubblicato Red as Blood, una raccolta di racconti anch'essi basati su fiabe più o meno note, tutti di ottima qualità, capaci di reinventare con soluzioni intriganti le storie che già conosciamo, e di scavare nei loro significati latenti portandoli alla luce con un'abilità sottile.
Tra le fiabe rivisitate in Red as Blood c'era anche quella di Biancaneve, ri-narrata in modo sovversivo nel racconto che dà il titolo alla raccolta: qui la dolce principessina che i più conoscono dal film della Disney era una inquietante creatura vampirica che la cristianissima regina decideva di eliminare per il bene del regno.

La storia di Biancaneve è ripresa in White as Snow in un modo del tutto diverso. La Lee punta qui sull'aspetto mitopoietico della vicenda, e arriva a portare tale aspetto alle estreme conseguenze intrecciandovi il mito di Demetra e Persefone con una coerenza ammirabile.
La trama è semplice: Arpazia è la matrigna della fiaba (che qui non è per niente una matrigna, ma la madre biologica dell'altra protagonista), una ragazza che viene stuprata quando un condottiero di nome Draco conquista il castello di suo padre. La prende in moglie, diventa re, e lei a sua volta diventa regina. Lo shock dello stupro e del vedersi strappata dal vecchio mondo che conosceva porta Arpazia a rigettare il frutto della violenza subita, la principessa Candacis che tutti chiamano Coira, e a sviluppare un'ossessione per uno specchio (che sia magico o meno è lasciato decidere a noi). Arpazia si rinchiude sempre di più in se stessa e nelle sue stanze, viene dimenticata da tutti e scivola sull'orlo della pazzia fino all'inevitabile tragico finale.

White as Snow è un romanzo in cui non succede quasi nulla. Se ne guardino bene gli amanti del fantasy machista alla Martin o alla Erikson. E' un romanzo in cui si sente pesantemente la mano narrante di una donna, ma attenzione, è una mano spietata, oscura. Tutto è giocato sulle dinamiche di attrazione/repulsione tra le due protagoniste che, paradossalmente, sono quasi all'oscuro delle reciproche esistenze.
La componente mitopoetica e simbolica è fortemente espressa dal personaggio di Arpazia, che arriva a incarnare una figura materna terribile, irrazionale, una dea madre che divora i propri piccoli per poter sopravvivere. Coira, d'altra parte, è la duplice Cora/Persefone della mitologia, vergine sulla terra e regina della morte nell'aldilà, ruolo che nel libro viene espresso con una discesa all'inferno non solo psicologica, ma anche fisica. Arpazia e Coira sono dei personaggi talmente simbolici che nel romanzo risultano addirittura spersonalizzate dalla quantità di nomi con cui vengono chiamate, e Tanith Lee si guarda bene dal farci coinvolgere emotivamente da loro: non sono che due burattini nelle mani di una storia più grande di loro, un ripetersi ciclico che può avere un solo esito.
Delle due è Arpazia a spiccare: il ritratto di una donna alienata e ossessiva è magistrale, ed è chiaro che è lei di cui la Lee importa di più raccontare. Ma è anche quella verso cui l'autrice è meno indulgente: non ci sarà alcuna redenzione per Arpazia, nessuna pietà. Coira è una figura più vaga, passiva, meno coinvolgente di Arpazia. Ma è a lei che, contro ogni aspettativa, viene affidato un finale speranzoso, che fa chiudere il libro con un sospiro di sollievo dopo pagine e pagine in cui non si respira altro che disperazione.

Uno dei punti forti della Lee, a quanto ho sentito, è la sua prosa. E a giudicare da quanto ho letto è proprio così. Un narrare etereo, fumoso, ricco di aggettivi e di suggestioni. Sembra quasi che non ci sia affatto una narrazione, ma piuttosto una sequela di immagini della consistenza di un sogno (o di un incubo).
Un plauso lo merita anche l'ambientazione, un medioevo immaginario in un mondo altrettanto immaginario di cui non viene svelato assolutamente nulla, contribuendo in questo modo al tono rarefatto della prosa e della vicenda. Belle anche le suggestioni del mondo pagano, di cui la Lee coglie perfettamente lo spirito.

Degna di nota pure l'introduzione di Terri Windling, un piccolo saggio esaustivo sulla fiaba di Biancaneve e sui significati nascosti che col tempo si sono persi.

Una delle migliori letture degli ultimi tempi.